Qualche tempo fa, sfogliando un libro, ho trovato la fotografia di un bambino, forse di un anno, forse di due. Si chiamava Remi e aveva un viso molto triste nel quale spiccavano due grandi occhi assetati di affetto. Probabilmente sapete che, tra il 1941 e il 1943, Hitler dichiarò ebrei tutti gli orfani d'Europa, per evitare possibili commistioni di sangue, tramite adozioni di bambini di incerta origine ariana. Come tanti altri, Remi finì nella camera a gas. Anche lui, è figlio di tutti noi.
Confesso che ho sofferto, ho sofferto di quel dolore del "perché?" cui è immune, forse, il sincero credente, di quel dolore che però è il più universale, il più ineluttabile. E quando lo senti dentro di te pare il più esclusivo, il più unico, il più proprio di tutti i dolori.
"Ho sofferto in un passato che nell'eco viva della memoria, nell'intensità del vivo ricordo di quel dolore, è divenuto parte inscindibile, comune del mio presente. Dall'esperienza dolorosa è nata per me un'esperienza di lettura. Ho letto, ho cercato senza sapere cosa, ho riletto daccapo con un'ansia avida, errabonda, con una sorta di ferino entusiasmo. Tanto che ora, davvero, non son più in grado di distinguere quel là dove finisce l'esperienza vissuta e comincia l'esperienza dei libri, delle pagine, delle parole. Per questo, poi, ho scritto, dal momento che in quel garbuglio di parole e sentimenti, di sapienza e dolore, se una trama contorta - quasi inestricabile e ancora confusa - esiste, allora solo la scrittura giunge, con fatica e tormento, con gioia e con tenue sollievo, a dipanarla".
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